Polipnea
1 Marzo 2020Elio
1 Maggio 2020Era il 1305.
Marco Polo aveva ormai smesso di viaggiare e Venezia era diventata un bazar di cose insolite.
Telai battenti a pieno ritmo scandivano i secondi in laboratori e botteghe colmi drappi in cui operavano uomini dai modi vagamente delicati. Nel sestiere di Cannaregio si respirava un’aria orientale accompagnata da un fastidioso e costante odore di cannella.
Da poco si era diffusa la pratica di tessere la seta e come tutte le novità molti non la capivano.
Era così che si guadagnava da vivere Ludovico Carraro: comprava tessuti che poi ricamava in un modo tutto particolare.
Un mestiere insolito, ma non gli dispiaceva. Poteva permettersi un chilo di riso, una dozzina di foglie di tè e una vita normale.
Ogni anno ai primi di gennaio partiva per l’Asia per acquistare la seta di Chang-chow, un villaggio che per i forestieri era alla fine del mondo. A lui però non sembrava così lontano.
La seta di quel luogo remoto era più leggera del nulla.
Ludovico Carraro lo sapeva bene.
Anche Marco Polo.
Quell’anno però fu costretto a dimenticarlo.
Il sovrano, un vecchio alto e magro con gli occhi dal taglio non molto orientale e la bocca sottile, introdusse una strana legge di cui nessuno capì mai il motivo.
“La città è aperta a chiunque ma non può essere abbandonata da nessuno” era la traduzione che un giovane mercante aveva passato agli altri.
Chissà se aveva ragione.
Sebbene l’idea di esser bloccato per sempre in quel nido meraviglioso di stoffe fosse allettante, Ludovico Carraro pensò che il suo insolito mestiere lì poteva diventare forse meno insolito, e questo non riusciva sopportarlo.
Arrivarono così i primi di gennaio e per la prima volta partì senza coordinate da seguire. S’imbarcò con una dozzina di uomini su una nave dove si respirava un’aria che stranamente non sapeva di cannella, si sedette accanto a un uomo dalle mani piccole e curate intente a trascrivere simboli orientali su fogli di corteccia di gelso e rimase in silenzio, come pervaso da una precaria leggerezza. Parlava solo se necessario o se interrogato, senza mai fare di se stesso l’argomento della conversazione.
E prima ancora che i fiori iniziassero a sbocciare e gli uccelli a migrare, approdò nel regno di Temur Khan. Senza farsi annunciare entrò nella residenza raffinata dell’imperatore e poggiò su un tavolo dall’aroma di ciliegia una stoffa persiana che egli aveva intessuto di fili d’oro ricopiando i segni orientali dell’uomo dalle mani piccole e curate.
Non sapeva cosa rappresentassero, non era abituato a dare un significato alle cose, ma per qualche motivo gli apparivano eterei.
-Sapete cos’è questo?
-Unet zuil
Ludovico Carraro non conosceva il mongolo, ma la dolcezza con cui furono pronunciate quelle parole gliene fece intendere il senso. Era una lingua sottile.
In segno di gratitudine Temur Khan gli diede cento perle e una bottiglia con dentro un foglio di corteccia di gelso su cui aveva fatto copiare quei simboli rari e preziosi che sembrava apprezzare tanto.
Probabilmente avrebbe voluto pensarli lui.
Non seppe mai chi li aveva realmente concepiti.
Il tessitore veneziano e il suo filato di cui non conosceva il significato si ritrovarono a fare il giro del Khanato diventando fili d’oro che correvano dritti nella trama di un decoro che non conoscevano. Tanto estraneo quanto familiare.
Passarono mesi.
Ludovico Carraro continuava a viaggiare e visitare dimore di signori raffinati dalla pelle chiara e il significato di quei versi ricamati ancora non lo sapeva.
Ascoltando la sua storia verrebbe naturale pensare che non se ne interessasse di proposito e che volesse farne a meno, ma la verità è che non ne sentì mai la necessità e l’Oriente non era un luogo di curiosi.
Avvertì per la prima volta il desiderio di conoscere a fondo quei caratteri lontani quando una donna si divertì a gridargli dietro cose incomprensibili, quella fu la prima volta in cui il mongolo non gli parve più tanto sottile. Allora l’amò e sentì il bisogno di sapere a cosa corrispondessero le infinite espressioni sul suo viso, bianco e bello.
L’amò per sempre.
In quei luoghi lontani non riuscì a trovare nessuno che potesse parlare la sua lingua e iniziò a capire bene perché molti definissero Chang-chow alla fine del mondo.
Gli sembrò di essere molto lontano, troppo.
Due giorni dopo s’imbarcò con una dozzina di uomini su una nave dove si respirava un’aria che stranamente tornava a sapere di cannella e accanto a lui non c’era nessun uomo dalle mani piccole e curate.
Tornò nel Sestiere di Cannaregio e andò a far visita all’uomo più orientale che conosceva. Aprì la bottiglia con dentro il figlio di corteccia di gelso, si sedette e iniziò a parlare di tutto: del viaggio, di Temur Khan, del tessuto e della donna.
Poi tacque, come pervaso da precaria trepidazione, e ascoltò la traduzione di quei segni tanto familiari quanto ignoti.
“Un filo d’oro
e cotone ritorto
poggia su se stesso
tre volte
infrangendosi contro una parete di seta,
espressione forse un po’ orientale di un artista fine e innamorato”
Ludovico Carraro esitò e sul momento non parlò.
Due giorni dopo partì con la speranza di ritrovare la donna dalla carnagione chiara e le espressioni sottili.
Ci riuscì.
Non disse nulla e le porse i versi.